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Vivere ultras? L’esempio di Carmine “Siberiano” Rinaldi

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Tredici anni senza Carmine Rinaldi, ai più il Siberiano, ultras granata, o meglio, un modo di percepire l’Amata Salernitana, diversamente. Un mondo diametralmente opposto al classico tifoso da stadio.

Il Siberiano Carmine Rinaldi, uno stile di vita da ultras

Sono passati tredici anni da quando quel giorno una notizia scosse Salerno. Era il 12 aprile del 2010, la Salernitana si avviava al ritorno in terza serie con una società allo sbando. Il tam-tam si diffuse dalla zona orientale, si diffuse nell’incredulità generale. Un pezzo storico del regno ultras della Curva Sud non c’era più. Il cuore di Carmine Rinaldi, per tutti il Siberiano, avevo smesso di battere.

Dopo la notizia

Quel che accadde subito dopo ebbe dell’incredibile solo per chi non avvezzo alle storie degli ultrà. La notizia si sparse per tutta Italia, e le abitudinarie rivalità che esistono tra frange opposte di tifoserie, abbassarono le ‘armi’. Perché? Per rispetto. Non semplicemente e giustificatissimo rispetto per i morti. Ma rispetto per chi va avanti e cresce con un’ideale. E che sia giusto o sbagliato, o incomprensibile. È il suo ideale, è insindacabilmente portato con fierezza in ogni stadio d’Italia. Con orgoglio… mangiare e dormire con quella idea, l’amore per quella squadra è la cosa più importante.

Il tributo

Una bara portata a spalla dagli amici sotto alla Curva Nuova dello stadio “Vestuti”, non solo lacrime, non solo applausi. Ma, soprattutto, cori… cori da stadio. Cori che ancora oggi come ieri, portano avanti un ricordo del vivere ultrà, come lui, e tanti come lui. Dagli amici della GSF con Ciccio Rocco su tutti, ai rivali di sempre, distanti e vicini. Da Cava de’ Tirreni, a Nocera Inferiore a tutta Italia, tutti si unirono in un solo coro: “Siberiano eterno”.

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Striscioni ricordano il Siberiano | ph: web

Perché una vita da ultrà?

Difficile da spiegare, ci nasci. È qualcosa in più rispetto alla vita di un tifoso, seppur appassionato. A Salerno la partita non finisce mai. La Salernitana è il “padre e la madre”, e tante volte, incrociando i discorsi granata con un nuovo conoscente, si dirà “È ‘na malatije, nun ‘u può capì”. Giri l’Italia, in lungo e in largo, e si lavora solo per avere i soldi per seguirla “dentro e fuori”. Non c’è un San Valentino con la fidanzata, non ci sono feste con i genitori, i tuoi amici sono ultrà come te. È un peso? Forse sì, ma piacevole da portare.

Il ‘nemico’ non è il giocatore avversario in campo, ma si trova sull’altra sponda degli spalti. Rivalità sì, ma sempre non oltre quel coro di sfottò. E la si può chiamare discriminazione territoriale come a tanti piace chiamarla, ma la verità è che senza i cori, gli stadi perderebbero il loro colore: quello che rende emozionante andare allo stadio, oltre la vittoria della Salernitana, chiaramente.


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